Banco Bpm, i due motivi che hanno fermato Orcel. E “il conto” dei francesi

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Walter Galbiati, vicedirettore di Repubblica
Lo aveva detto Andrea Orcel, numero uno di Unicredit, che si era mosso su Banco Bpm perché aveva avuto il sentore che sulla stessa preda si stessero muovendo i francesi di Crédit Agricole. Che a novembre dello scorso anno avevano già il 9,9% dell’ex popolare italiana.
Buy on rumors. L’autunno scorso i rumors circolavano sul mercato. E origliate le voci di possibili derivati dei francesi per salire al 20% di Banco Bpm, Unicredit non perde tempo e il 25 novembre lancia la sua offerta di scambio.
La prima mossa dei francesi. I timori non erano fuori luogo perché, dopo solo dieci giorni, il 6 dicembre 2024, Crédit Agricole annuncia di avere in mano opzioni su Banco Bpm da poter convertire in azioni pari al 5% del capitale.
Una questione di quote. Le azioni opzionate, sommate alla precedente quota, portano la partecipazione complessiva dei francesi poco sotto il 15%. Ma al di sopra della quota rilevante del 10% che li obbliga a chiedere l’autorizzazione alla Bce per superarla.
Chiesta e ottenuta, Crédit Agricole ha le mani libere per salire indisturbata fino alla soglia rilevante successiva del 20%.
Unicredit non mette le ali. Passano sei mesi nei quali l’offerta di Unicredit non decolla, anzi si insabbia sempre di più per l’intervento ad aprile del governo che con il golden power pone paletti tanto stringenti da mettere a rischio la sana e prudente gestione delle due banche qualora diventassero una.
Le prescrizioni. I vincoli sugli impieghi e sul portafoglio titoli, per esempio, sono contrari al buon governo di qualsiasi banca, come avrebbe dovuto sottolineare la vigilanza di Banca d’Italia, perché possono minare la liquidità di Unicredit.
Il primo motivo della rinuncia. Ci si trascina così fino a giugno, quando Orcel in una intervista a Repubblica, constatato di non poter vincere contro l’opposizione del governo (primo motivo della rinuncia), dichiara di essere pronto al ritiro e alla domanda su cosa succederà dopo risponde che “resterà Crédit Agricole come azionista di riferimento col 20%, o forse di più”.
La seconda mossa dei francesi. Anche “quel forse di più”, come i primi derivati d’autunno, si concretizza da lì a poco, perché tre settimane dopo, l’11 luglio, la banca francese scopre definitivamente le sue carte e svela di avere il 19,8% della banca italiana e di aver chiesto alla Bce di salire oltre il 20%, con la possibilità di arrivare al 29,9% senza dover lanciare un’offerta che scatterebbe solo superando il 30%.
Tempi giusti. Il tempismo dell’annuncio è perfetto perché arriva un giorno prima della sentenza del Tar, che smonta due punti su quattro del golden power, e tre giorni prima della lettera delle Dg Comp europea, che lo fa completamente a pezzi.
Il secondo motivo della rinuncia. Ed è perfetto perché con quel comunicato Orcel capisce che, nonostante la situazione volga a suo vantaggio con il parere semi-favorevole del Tribunale amministrativo e favorevole della Commissione europea, davanti alla sua scalata c’è ormai un 30% di capitale in mano a Crédit Agricole capace di bloccare, qualora raccogliesse anche una gran quantità di azioni, l’eventuale incorporazione di Banco Bpm.
La capacità di far sistema. Nel capitale dell’ex popolare, al di là della possibilità di Crédit Agricole di salire al 29,9%, si manifestano una dozzina di azionisti francesi, da Banque postale a Bnp Paribas fino a Natixis pronti a fare sistema e a sostenere le ragioni dei cugini d’Oltralpe.
La minoranza di blocco. Questo blocco francese renderebbe di fatto impossibile l’ascesa di Unicredit anche qualora l’Unione europea imponesse al governo italiano non solo di riformulare, ma di annullare il golden power.
Deporre le armi. Così a un giorno dalla scadenza dell’offerta, nonostante il prolungamento di 30 giorni concessi dalla Consob per fare chiarezza sugli interventi di istituzioni e regolatori e nonostante l’obbligo imposto al governo di rispondere alle critiche della Ue entro l’11 agosto con la possibilità di attenuare i paletti, Orcel ha deciso di abbandonare la partita.
“Il modo ancor m’offende”. Quel che non torna di questa storia, però, non è che il Crédit Agricole diventi l’azionista di riferimento di una banca italiana. Anzi è una buona notizia il consolidamento europeo. Ma il modo.
Non è stato tutelato il mercato. Il governo attraverso il golden power, additando motivi di interesse nazionale, ha evitato che la contesa su Banco Bpm si svolgesse secondo le regole del mercato, dove si sarebbero dovute fronteggiare due offerte, una di Unicredit e una di Crédit Agricole.
Il confronto. Nella eventuale contesa di mercato, le armi degli italiani sarebbero state maggiori di quelle dei francesi. Limitandoci anche solo alla capitalizzazione di mercato delle due banche nel caso entrambe le offerte di acquisto fossero avvenute con uno scambio di titoli, Unicredit capitalizza 95 miliardi, quasi il doppio dei 49 miliardi di Crédit Agricole.
Le pubbliche relazioni contano. I francesi, tuttavia, a differenza di Unicredit, si sono mossi benissimo col governo e, mettendosi a disposizione, hanno pure annunciato di non volere il controllo di Banco Bpm, pur avendolo di fatto ottenuto.
Il terzo polo. Ora tolta di mezzo Unicredit (ma mai dire mai), si può passare al capitolo successivo, la creazione del terzo polo bancario italiano, che nei disegni iniziali dell’esecutivo prevedeva la fusione tra Banco Bpm e Monte dei Paschi.
E il Crédit Agricole? I tempi non sono ancora maturi, perché Siena ha in corso l’offerta su Mediobanca che si protrarrà fino a settembre. Ma se le cose dovessero procedere, c’è da capire quale sarà il ruolo del Crédit Agricole.
Corsi e ricorsi storici. La soluzione più accreditata è che, come avvenuto nel 2006 in occasione della fusione tra Banca Intesa e Banca Sanpaolo, i francesi ottengano una contropartita. Allora fu il controllo di Cariparma, FriulAdria e successivamente di Cassa di Risparmio della Spezia.
Il “conto” dei francesi. Nel caso di Banco Bpm, perr aderire all’offerta di Unicredit, i francesi avevano chiesto a Orcel come contropartita 500 sportelli, il 40% di Agos in mano a Banco Bpm e un accordo di 10 anni sul risparmio gestito per destinare ad Amundi (controllata da Credit Agricole) le masse raccolte attraverso la rete delle due banche unite.
Difficilmente queste condizioni potrebbero essere duplicate da una fusione tra Banco Bpm e Monte dei Paschi, ma di fatto indicano quale sia la strada prediletta da Crédit Agricole per rinunciare al controllo della banca guidata oggi da Giuseppe Castagna.
La Repubblica